Quinto Martini
Quinto Martini
“Io mi attacco all’arte e lei non molla me e io non mollo lei”

Il motivo dominante della vita di Quinto Martini, costante nelle autopresentazioni dell’artista, è stata la sua passione per l’arte e per il proprio lavoro artistico, lavorare era per lui una “malattia” e insieme una “terapia”, un motivo inesauribile di piacere e in ogni caso sempre una ragione imprescindibile del proprio vivere.
Considerava l’arte una dimensione assoluta e pressoché incomunicabile dello spirito: “d’arte un artista ne parla seriamente solo quando la fa”, annota in un appunto senza data, e l’artista si rivela attraverso le opere: “Lavoro molto, perché stimo che soltanto lavorando si può arrivare naturalmente a risolvere tutti quei profondi problemi dell’arte che l’intelligenza non potrebbe mai per astrazione risolvere. Un artista che ha un impegno con se stesso ha un impegno anche con la società”. Visita la pagina Biografia »
Nella scultura Quinto Martini trova la sua vocazione più potente e sviluppa una vena genuina, perchè qui l'influsso di Soffici non si faceva affatto sentire, o perlomeno avveniva in modo ben più indiretto. Ed è nella scultura che Martini ha modo di svolgere con rigore e autonomia assoluta la propria arte. Si è già detto che Quinto si sceglie all'inizio, siamo alla fine degli anni Venti, i propri referenti nella grande tradizione plastica toscana del Trecento e primo Quattrocento: la sua frase perentoria - “Soffici e la Natura furono i miei soli maestri” - và letta in filigrana. In realtà Martini ben guardò anche ad altri maestri, ai quali si richiamò a volte in modo diretto, altre in modo mediato ma sempre esplicito.
Martini amava presentarsi in un modo semplice e categorico, celando la sua conoscenza profonda della scultura, confermando così quella figura quasi rustica dell’artefice antico, scevra da intellettualismi e da pose da artista alla moda.

Nel 1990, quando ristampò in volume presso Pananti tre suoi saggi già pubblicati in rivista, su Donatello, Michelangelo e Rodin, con una prefazione di Umberto Baldini, Martini scrisse in calce questa dedica: “A Mario, maestro marmista pratese, che nella mia lontana adolescenza dentro la baracca a ridosso delle mura del Castello dell’Imperatore, con disciplina mi insegnò a adoperare gli scalpelli e assottigliare i ferri del mestiere, con tanta riconoscenza, dedico questi scritti”. È dunque a un “maestro marmista”, un artigiano e non a un altro artista che Martini rivolge il suo ringraziamento, quasi a rivendicare l’origine della scultura dai “marmorari” anonimi, i decoratori romanici delle pievi e delle collegiate, uomini del fare più che del pensare astratto. Visita la pagina Scultura »
Nella luce tersa dello studio di Seano ed in quella più acquosa della stanza di lavoro in Via dei Della Robbia, a Firenze, Quinto Martini conduce da decenni, attraverso la pittura, una sorta di dialogo ininterrotto con se stesso, gli uomini e la cultura del Novecento.

Si può affermare che la sua pittura non ha ancora avuto l'attenzione critica già dedicata alla scultura. Partendo dalle iniziali premesse sofficiane, della riscoperta di una severa struttura insita nel paesaggio toscano, Martini è andato via via ripercorrendo un colloquio ed una riflessione con gran parte degli eventi del Novecento pittorico: dagli esordi della mostra al Selvaggio, 1927, con Soffici, Rosai, Lega, Morandi e Maccari, alla mostra alla Cometa del 1939, dove Soffici scrisse del giovane Martini scultore: "Per me, che ho visto nascere e avviarsi alla loro perfetta vitalità queste gentili e sobrie immagini di gioventù nuda, queste forti figure di terracotta o di pietra, questi vigorosi ritratti - tra cui eccellente quello della vecchia madre dell'autore – è una gioia vera presentare così alla buona quello che fu ai miei occhi il ragazzetto Martini, ora fatto adulto confratello d'arte, e di additare in lui una forza operante, genuina, fresca, feconda, nella scultura italiana del tempo nuovo". Da allora fino agli esiti recentissimi, in quell'instancabile operare quotidiano intorno ai quadri di questi anni, tutta la pittura di Martini, [...] è una ricerca costante, quasi strutturale, condotta su alcuni temi: le colline di Seano, i boschi, le nature morte, i grandi close-up di paglia e sterpi, le figure dei contadini, il ritratto. Visita la pagina Pittura »
Scritti - Quinto Martini
Il sentimento fondamentale che anima la sua opera letteraria è la sottolineatura del più forte grado di autenticità e di verità umana presente nella civiltà della campagna.
Esso lo porta a rappresentare, in termini sommessi e non retorici, la fierezza del mondo contadino, la sua capacità istintiva di reagire alle situazioni più dure in una realtà sociale caratterizzata da penuria e da forti disparità di classe e infine il formarsi al suo interno di una speranza e di una volontà politica rivolta a “creare un mondo dove non ci fosse chi muore di fame e chi muore invece dal troppo mangiare” che si esprimeva nell’adesione di molti al comunismo e alla lotta antifascista.

L’universo di valori testimoniato in I giorni sono lunghi è presente anche nelle pagine di Chi ha paura va alla guerra, dove il confronto fra una consapevole opzione laica che fa leva sulla volontà dell’uomo e vuol essere efficace e una pietà popolare considerata dall’autore viva, autentica e degna del massimo rispetto, ma in fondo inefficace, conferisce un carattere etico-civile (e anche religioso) alla tematica affrontata. Visita la pagina Scritti »

VIDEO

Regia di Federico Bondi
Produzione di Teresa Bigazzi e Luciano Martini
Musiche di Éric Satie
Trailer del documentario "Quinto Martini"
realizzato nel 1999, durata 34' minuti.