Quinto Martini

QUINTO MARTINI - PITTURA di Marco Fagioli

Quinto Martini - Pittura Natura morta con frutta e bottiglie, 1932 c.
Quinto Martini, 1999, Studio Per Edizioni Scelte
Quinto Martini - Pittura Paesaggio
Quinto Martini Pittore e Scultore, 2004, Aiòn Edizioni
Quinto Martini - Pittura Donna che stira
Quinto Martini Pittore e Scultore, 2004, Aiòn Edizioni
Quinto Martini - Pittura Donna che raccoglie il fieno
Quinto Martini Pittore e Scultore, 2004, Aiòn Edizioni
Quinto Martini - Pittura Grande natura morta
Quinto Martini Pittore e Scultore, 2004, Aiòn Edizioni
Quinto Martini - Pittura Donna che si lava i piedi
Quinto Martini Pittore e Scultore, 2004, Aiòn Edizioni

Rigore e coerenza di Quinto Martini pittore

Nella luce tersa dello studio di Seano ed in quella più acquosa della stanza di lavoro in Via dei Della Robbia, a Firenze, Quinto Martini conduce da decenni, attraverso la pittura, una sorta di dialogo ininterrotto con se stesso, gli uomini e la cultura del Novecento.

 

Si può affermare che la sua pittura non ha ancora avuto l'attenzione critica già dedicata alla scultura. Partendo dalle iniziali premesse sofficiane, della riscoperta di una severa struttura insita nel paesaggio toscano, Martini è andato via via ripercorrendo un colloquio ed una riflessione con gran parte degli eventi del Novecento pittorico: dagli esordi della mostra al Selvaggio, 1927, con Soffici, Rosai, Lega, Morandi e Maccari, alla mostra alla Cometa del 1939, dove Soffici scrisse del giovane Martini scultore: "Per me, che ho visto nascere e avviarsi alla loro perfetta vitalità queste gentili e sobrie immagini di gioventù nuda, queste forti figure di terracotta o di pietra, questi vigorosi ritratti - tra cui eccellente quello della vecchia madre dell'autore – è una gioia vera presentare così alla buona quello che fu ai miei occhi il ragazzetto Martini, ora fatto adulto confratello d'arte, e di additare in lui una forza operante, genuina, fresca, feconda, nella scultura italiana del tempo nuovo". Da allora fino agli esiti recentissimi, in quell'instancabile operare quotidiano intorno ai quadri di questi anni, tutta la pittura di Martini, [...] è una ricerca costante, quasi strutturale, condotta su alcuni temi: le colline di Seano, i boschi, le nature morte, i grandi close-up di paglia e sterpi, le figure dei contadini, il ritratto.

 

Questo lavorare su precisi soggetti, questo ritornare sulle stesse composizioni o vedute con una ricerca quasi ossessiva, questo appartarsi nella pittura per ripensare i termini dello svolgimento del linguaggio del Novecento dal Futurismo in poi, è la linea che ha caratterizzato l'opera intera dell'artista. Vi è un passo della testimonianza scritta da Martini nel 1964, in occasione della morte di Soffici, che rende pienamente il segreto assillo della sua ricerca di pittore, proprio nelle parole con le quali egli descrive l'amico-maestro: "Mi parlavi del tuo tormento di non poter rendere quella campagna, che ti era tanto familiare, con la semplicità e la grandezza che avresti voluto, che sentivi dentro di te. E, nel parlare di quello e di quell'altro, nel calore che ci mettevi avevo la sensazione che tu continuassi a scrivere la parte più bella del tuo Scoperte e massacri".

 

E questo tormento "di non poter rendere quella campagna … con la semplicità che avresti voluto", che muoveva la pittura di Soffici secondo Martini, è lo stesso tormento che ha mosso la sua nei decenni di lavoro. Le fasi stilistiche della pittura di Martini possono essere definite oggi nel loro sviluppo generale; a partire dai quadri di contadini degli anni Trenta fino agli interni con fumatori ed ai boschi degli anni Cinquanta; appare certo che alla iniziale solidità delle sue figure, alla semplicità da "primitivo toscano" rivisto secondo il clima del Novecento, si sovrappone l'assillo di una concezione strutturante, non più lirica ed emozionale, ma intellettuale e razionale. Di nuovo ci soccorre puntuale la testimonianza di Martini su Soffici: "Ricordo quando mi mostrasti per la prima volta le foto dei quadri di Cézanne e mi parlasti della sua pittura". Le parole di Soffici su Cézanne si possono ritagliare in quello scritto del 1908, appunto in Scoperte e massacri: "Paul Cézanne rappresenta una volontà unificatrice della pittura moderna. … Tutto in simili momenti appariva chiaro e omogeneo alla sua mente: non più cozzi di opinioni diverse, non più incomprensioni frammentarie; ma una visione compatta, genuina e libera. … Pazzo e primitivo, Cézanne era, ma piuttosto al modo scontroso dei mistici cristiani: di Jacopone da Todi e di Giotto".

 

Ma il "primitivo" di Cézanne era per Soffici "la suprema espressione del moderno", espressione ostica ad affermarsi in un paese come l'Italia dove "checché possano dirne i pappagalli di terza pagina dei grossi giornali, i sensali mascherati delle riviste illustrate, e i polverosi professori pagati per fare da beccamorti ne' i musei, non conosce né capisce, e perciò non ama, la modernità". Il "primitivo" per Quinto Martini non è più solo "la suprema espressione del moderno", quale appariva a Soffici nei primi decenni del secolo, sulla scia del Cubismo: "il primitivo" diviene invece la riscoperta di una significazione essenziale, diremmo "strutturante", della natura e delle cose. La presenza di una simile concezione, di una riscoperta di Cézanne appunto "Pazzo e primitivo….. al modo scontroso….. di Jacopone da Todi e di Giotto", così lontana dalle riletture di Cézanne in chiave "classicista", deve però essere chiarita: Martini infatti ha rifuggito a schierarsi in modo dogmatico all'interno di ogni poetica del Novecento che in qualche modo fosse "retorica e celebrativa" con eguale estraneità sia rispetto alla retorica politica e civile sia a quella dei sentimenti e della liricità. La pittura delle cose più semplici e quotidiane non è per lui, mi dice, quella dei gigli e delle rose, questa "lirica di lusso" che confonde la finzione profumata con la natura; ma la pittura di nature morte ove il pane, un bicchiere, bianche barbabietole tagliate con l'accetta e grandi zucche gialle o fiori di campo gettati senza scena sul tavolo, fino al rovo e alla paglia, animano il suo lavoro. E ancora questo non è "poesia" del volgare o del primitivo, quanto racconto di materie di cui è quotidianamente intrisa l'esistenza. Ci si accanisce a dipingere patate a legna quando si sa che esse costituiscono la sostanza delle cose al pari di ogni iperbole figurata dei "massimi sistemi".

 

Questo assillo della ricerca di Martini, di una bellezza che è nelle cose al di fuori di ogni enfasi, caratterizza tutta la sua opera e pone accanto sculture scabre come l'uomo sotto la pioggia con quella scatola di cartone in testa, alla levigata finezza delle sue giovinette nude che si accarezzano nell'amore: sculture queste apparentemente diverse, quasi stridenti tra loro, ma animate invece dallo stesso segreto assillo.

 

La critica deve ancora valutare questa sua peculiarità che ha permesso a Martini di non incagliarsi sia nelle secche del populismo dello Strapaese, sia in quelle successive del cosiddetto "umanesimo mediterraneo".

 

Le ragioni della ricerca verso una essenzialità quasi primitiva, proprie della prima educazione sofficiana, dovettero forse presto misurarsi con l'altro elemento determinante nella formazione del giovane Martini: il servizio militare a Torino nel 1928, il tempo del primo incontro, come egli mi racconta, con Carlo Levi e l'ambiente culturale segnato dalla presenza di Felice Casorati, e dei più giovani Francesco Menzio, Enrico Paulucci e Cesare Pavese. [...]

 

Così la presenza di Levi diviene, dopo quella germinatrice di Soffici, la seconda tappa fondamentale di questa "educazione alla pittura", ma ben diverse ne saranno le valenze e gli esiti; Soffici è il modello decisivo nella formazione del giovane e lascia una traccia definitiva in tutto il percorso della sua evoluzione formale. I modelli di Soffici, dalla campagna fiorentina così diversamente letta da quella di Rosai, alle donne contadine scalze dalle lunghe vesti e gli uomini dai volti quasi tagliati nella pietra e scabri, lontani da quelli sottoproletari degli "omini" dell'altro grande fiorentino di via Toscanella, assilleranno sempre la ricerca di Martini perchè si sono fissati nell'universo di Quinto al momento del suo nascere: di Levi invece, conosciuto nel 1928 a Torino, ma del quale fino agli anni Quaranta ed alla guerra la frequenza non sarà intensa, di Levi non si nota una così evidente traccia. Levi appare non tanto un termine stilistico quanto una presenza fraterna, un compagno alla pari con il quale dialogare, e da questo dialogo deve essere in qualche modo scaturito un incoraggiamento ad uscire dall'originario mondo sofficiano. Nelle pagine di congedo da Soffici scritte da Martini ritornano i caratteri profondi della contraddittoria presenza che egli ebbe: da una parte Soffici appare quale il maestro che mostra per primo fiducia nei mezzi del giovane scultore di Seano ed anche l'intellettuale che gli fa scoprire Cézanne e Picasso, che colloca l'operare artistico nello spazio non angusto e chiuso della tradizione accademica. Dall'altre parte Martini avverte tutti i limiti politici della personalità di Soffici, la sua adesione al Fascismo, sì da apparirgli nelle parole del vecchio muratore socialista Torquato Cecchi "come un bambino" che non capisce nulla di politica. Ecco quindi che l'amicizia con Levi rappresenta un polo intellettuale opposto: una conferma alle spinte ideali socialiste, al mondo di classe contadino e operaio di Martini.

 

Sono quindi gli anni degli arresti, della lunga detenzione del fratello maggiore di Quinto nelle carceri fasciste, fino alla guerra ed alla clandestinità, a spingere in qualche modo l'artista a rivedere le proprie basi. Martini sorride al pensiero di quei critici che hanno cercato di individuare nella sua scultura degli anni Trenta e Quaranta una adesione a quella sorta di "umanesimo mediterraneo" tra le due guerre, fatto di sole, di mare e nudi di giovanetti, che avrebbe pervaso gli artisti della sua generazione: egli mi dice che non ha mai cercato quegli esiti di "lirica purezza", di canto della giovanile bellezza che alcuni additano a significato della sua scultura di allora. Sorride all'idea di essere associato in questa ricerca del bello a scultori che egli avverte profondamente estranei alla sua natura come Arturo Dazzi e Publio Morbiducci: "Malintesi nati da chi vuol vedere se stesso e non quello che io ho fatto realmente: io nelle figure nude ci ho messo sempre qualcosa di anticlassico. Il nudo retorico non mi ha mai interessato". Dopo la guerra, negli anni Cinquanta e Sessanta, Martini avvia consapevolmente una revisione delle proprie basi sofficiane, e la pittura testimonia questa ricerca: egli rilegge gli episodi fondamentali dell'arte del Novecento e come in un laboratorio sottopone di nuovo con accanimento il paesaggio di Seano, le nature morte, i boschi e i contadini dei suoi quadri ad un continuo misurarsi con il linguaggio futurista e cubista, fino ad arrivare ad accarezzare l'idea di una pittura che compendi in sé sperimentalmente i diversi linguaggi.

 

E si apre poi ai bagni di luce, alle figure del lavoro nei campi, immerse nei coriandoli di colore, con le quali decora le pareti del suo studio e quelle grandi carte a tempera che poi arrotola l'una nell'altra.

 

A volte l'esito appare duro, quasi schematico: tronchi di legno sfaccettati e alberete su pendii volontariamente "cubisti"; bottiglie, bicchieri e forme di pane casalingo, nature morte intrise nel grigio della miseria; boscaioli al tavolo con bicchiere ed il fiasco di vino, che fumano nuvole di "programma futurista"; un chitarrista povero, omaggio a Picasso.

 

Ma all'improvviso l'occhio felice di questo che è ancora un ragazzo contadino si accende ed allora la sua mano dipinge figure di donne e fanciulli, illuminati da una pioggia di rosa, di gialli e azzurri, volti di madri e bambini che si affacciano alla porta o ci guardano dietro i vetri trasparenti di una finestra segnati dalla pioggia.

 

Ecco, il Quinto scontroso di sempre si rabbonisce e mi sorride:

"Non ho mai avuto le idee chiare sulla pittura come ora: sto tra la luce e l'ombra, la soglia che le separa è precisa, eppure impercettibile. Forse riuscirei a dipingerla ma occorrerebbe ancora un po' di tempo".

 

***

 

Questo testo, scritto in occasione dell'ottantaduesimo compleanno dell'artista ed apparso subito dopo la sua morte nella rivista Pietra Serena, n. 5/6, Estate–Autunno 1990, é ripubblicato nella sua originaria versione nel catalogo per la mostra tenuta a Firenze nel 1995: Quinto Martini. Sculture e dipinti – Opere 1925 – 1990, a cura di Marco Fagioli, Edizioni Galleria Il Ponte, Firenze, 1995, pp. 13-17.